Dalle foglie, nelle centinaia di migliaia di anni che precedono il suo avvento, l’essere umano ha imparato ad estrarre medicamenti, nutrimento, pigmento, involucri, e supporti di scrittura e di lettura. Gli specialisti hanno svelato che grazie a loro, depositarie del tesoro clorofilliano, noi possiamo respirare su questo pianeta. Sono laboratorio di luce e di trasformazione inesausta, salvifica: assorbono anidride carbonica, ci restituiscono ossigeno. Ma nonostante tutto questo, noi non vediamo le foglie, non ci facciamo proprio caso. Sono indistintamente verdi, indistintamente ingialliscono l’autunno: e con quale grazia, quel sapersene andare; quale forza nel farlo senza un grazie, in un congedo di volo, in un afono atterraggio.
Annalisa Di Meo, invece, di loro, se n’è accorta: questa artista-architetto lavorava con le foglie, per le foglie, quando correva il rischio di apparentamento al decorativismo neo-Liberty. Bastava guardare, bastava accorgersi per sentire, per avvertire che era tutt’altro quella sua gentile ossessione, quello sguardo chino sul dettaglio, sull’invisto e il trascurato, sulla reinvenzione naturale. Ogni opera è una piccola fragrante scoperta di essenza, d’anima e di struttura. Acquarellate e fotografate, o prelevate dai prati e avvolte da una seconda natura – un foglio di carta – che ne fa trapelare presenza filigranata, ricamate e quasi evocate con arabeschi di spago bianco, le sue foglie costruiscono un atto di cura per ciò che resta, che mostra la sparizione della materia per logoramento, essicazione, marcescenza, decrepitezza, attraverso un esilissimo scheletro di vene e capillari, frammenti friabili e arrischiati di membrana e picciuolo, a volte. E ci si chiede, accorgendosi di quel che resta, se sia proprio opportuno parlare di fragilità.